Stop Ableism! Basta discriminazioni!
#stopableims
Stop Ableism! Basta discriminazioni!
#stopableims
«finché con un battito delle ciglia fermo il mio interlocutore sulla lettera che deve annotare. Si ricomincia la stessa manovra per le lettere seguenti, e se non ci sono errori, si ottiene abbastanza velocemente una parola comprensibile, poi dei pezzi di frase quasi comprensibili». (p. 24)
Questo libro è un attacco duro, una presa di posizione netta e ben delineata già dal frontespizio, sopra riportato. Già si capisce dove l’autore andrà a parare nel suo scritto. Ma è la stessa forte e netta presa di posizione a spingere a prendere in mano e a leggere il breve saggio dello storico torinese: è l’interesse e la curiosità del capire e, magari, comprendere la sua posizione su un tema così importante.
La trattazione è veloce e pungente, ma, allo stesso tempo, mai troppo densa; notevole pregio visto che il fin troppo delicato argomento è trattato in poco più di un centinaio di pagine.
Il saggio, prendendo spunto da due vicende occorse ad una coppia piemontese inseguito all’approvazione del Concordato fra Stato e Chiesa nel 1984 e la loro conseguente richiesta di togliere il crocifisso dai muri degli edifici pubblici, arriva ai giorni nostri, con puntuali intervalli storici, atti ad arricchire di esempi e di esperienze l’argomento del libro (d’altronde Luzzatto è uno storico e cerca, quindi, di argomentare sfruttando a fondo il proprio campo di lavoro).
La tesi di fondo, che viene ripetuta più volte (e che mi trova più che concorde) è la contrarietà “all’idea che non soltanto l’identità italiana sia stata plasmata dalla presenza spirituale e istituzionale di Santa Romana Chiesa, ma che tale identità abbia un quid [che n.d.s.] di fisso, di immobile, e di tanto più degno in quanto fisso e in quanto immobile” (p. 47).
Ne nasce così un discorso volto a mettere in luce, a svelare, il credulismo italico sempre pronto a rivolgersi a questo o a quell’altro santo, sempre pronto ad inginocchiarsi dinnanzi a quella o a quell’altra reliquia. Credulismo che fa del crocifisso un simbolo identitario, ma che del crocifisso ignora significati e valenze morali-religiose. Credulismo che vede nel crocifisso una clamorosa occasione per scatenare una colossale offensiva alla laicità, definita con lo sprezzante “laicismo”, lanciato lì a mo’ di sinonimo, quando i due termini non si equivalgono. Credulismo che arringa, in difesa del simbolo religioso, con argomentazioni da ‘500, da “Pace di Augusta” ( se la maggioranza è cristiana cattolica è giusto e doveroso che si esponga il crocifisso e che gli altri si adeguino; una versione riveduta del cuius regio, eius religio) oppure con bislacche argomentazioni teologiche (il crocifisso è il simbolo della sofferenza in qui tutti possono identificarsi, quando, tuttalpiù, è il simbolo della salvezza, della speranza, del rispetto altrui).
In conclusione, l’autore afferma che “c’è uno spazio pubblico che si apre a tutti, per il libero esercizio di attività individuali o di gruppo, e c’è uno spazio pubblico che appartiene a tutti, e che va gestito dalle istituzioni in rappresentanza della collettività” (p. 111).
Vorrei, infine, terminare questa recensione con le stesse, toccanti, parole adoperate dall’autore per concludere il proprio pamphlet, citando una frase di Amos Luzzatto: “Cosa metterei nelle aule delle scuole italiane? La doppia elica del Dna, l’unico simbolo del genere umano punto e basta. A prescindere dal coloro della pelle, dalla lingua, dalla religione, insomma da tutto quello che dovrebbe essere solo un particolare”. (p. 116)
DATI TECNICI DEL TESTO RECENSITO
AUTORE: Sergio Luzzatto
TITOLO: Il crocifisso di Stato
CASA EDITRICE: Einaudi
N° PAGINE: 127
ANNO DI EDIZIONE: 2011
Ho letto questa risposta (e domanda) su un libretto, comprato in una bancarella del libro usato (lode alla bancarelle!), nel quale Simone Casalini interrogava vari specialisti delle scienze umane sul Novecento. In ogni intervista si cercava di dare un velocissimo affresco di questo secolo dando gli estremi e punti focali a seconda delle diverse prospettive: quella del filosofo, dello storico, dell’economista, del politologo e così via.
Questo scambio di battute l’ho copiato dall’intervista fatta a Sergio Fabbrini, nella quale si discuteva della politica del Novecento. Mi ha colpito particolarmente perché mi ha fatto immediatamente tornare alla mente la frase, che ho anche come sottotitolo al blog, “non si può imporre la democrazia al popolo, si può solo dargli la possibilità di esercitarla.”; ecco, quest’intervista mi pare che spieghi quel concetto espresso da Gorbačëv quasi venticinque anni fa, ma, purtroppo, fin troppo attuale e mai rispettato.
In calce ho inoltre trascritto le biografie dell’intervistatore e dell’intervistato.
(sc) Anche l’idea di una “democrazia esportabile” è stata un concetto ambiguo, una giustificazione per un cambio di direzione sulla scena politica internazionale.
(sf) La democrazia è un concetto plurale, basti vedere l’esperienza occidentale. In Europa abbiamo costruito diversi modelli democratici, proprio per adattarli alle diverse condizioni sociali e culturali. Alla fin fine, un grande politologo americano, Elmer Eric Schattschneider, aveva scritto poco dopo la seconda guerra mondiale che «la democrazia è stata fatta per i cittadini e non viceversa». In realtà, la democrazia non si esporta, ma deve essere costruita pazientemente dall’interno. Il compito dello scienziato della politica è quello di mostrare tale pluralità di vie della democrazia. Dopo tutto, se in Europa o in Occidente abbiamo trovato strade differenziate, non vedo la ragione per la quale i Paesi non occidentali non possano fare altrettanto, adattando i principi democratici ai loro contesti. Negare loro questa possibilità significa riaffermare la visione della nostra superiorità culturale. Una visione che trovo moralmente, oltre che scientificamente, infondata.
[Simone Casalini, Intervista al Novecento, Egon, 2010, Rovereto, pp. 43-44]
Simone Casalini (Fano, 1974): laureato in Scienze politiche all’Università degli Studi di Urbino, si è occupato di ricerca in ambito politologico e filosofico, studiando in particolar modo la produzione della Scuola di Francoforte e il poststrutturalismo francese.
Sergio Fabbrini (Pesaro 1949): è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore della School of Goverment dell’Università Luiss di Roma.È recurrent visiting professor in Comparative Studies della University of California di Berkeley. È stato professore ordinario di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Trento e direttore della Scuola di studi internazionali. È stato direttore della “Rivista italiana di scienza politica” dal 2004 al 2009. Nel 2009 ha vinto il premio Filippo Burzio per le Scienze politiche e nel 2006 è stato il primo italiano ad aggiudicarsi l’European Amalfi Prize for the Social Sciences.
DATI TECNICI DEL TESTO RECENSITO
AUTORE: Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone
TITOLO: Pensare l’Italia
CASA EDITRICE: Einaudi
N° PAGINE: 144
ANNO DI EDIZIONE: 2011
È difficile assistere ad una conversazione tra storici, visto che anche durante le conferenze i batti e ribatti durano che pochi minuti (anche per motivi di tempo complessivo); ancor più difficile, se si ha la fortuna di assistervi, è seguirne i concetti, gli esempi, le idee elencate e ricordarsele per tutta la conversazione. Anche perché, gli storici, tendono a dare per scontate molte cose quando iniziano a discutere tra loro e per un pubblico “non del mestiere” seguire il filo del discorso si fa complicato: la storia è un enorme contenitore e quando lo storico “s’accende” va a rovesciarne l’intero contenuto.
Questo libro, potremmo dire, capita a fagiolo per affrontare il problema sopra detto. Infatti Pensare l’Italia, nasce da una chiacchierata tra due valenti storici, specializzati in campi totalmente differenti e con un percorso culturale totalmente differente. Il primo Ernesto Galli della Loggia, contemporaneista e “democratico-nazionale”, il secondo Aldo Schiavone, docente di diritto romano e “vecchio hegeliano”.
Il merito di questo libro è di far entrare il lettore in una chiacchierata tra storici, nell’incontro-scontro delle visioni del passato e di come questo sta influenzando il presente e/o influenzerà il futuro. Il vantaggio della parola scritta è quello di poter riflettere sopra i concetti espressi, quasi mitragliati, dai due intellettuali. In questa maniera un oscuro dibattito tra esperti, diventa comprensibile ai lettori, i quali possono imparare dalla lettura.
Il dibattito prende vita attorno al quesito col quale inizia il libro stesso: “E adesso, che la festa è finita?”. Ovvero, ora che le festività per i 150 anni stanno finendo, che rimane di quelle spinte patriottiche, quei tricolori spolverati per l’evento, quel continuo fischiettare dei Fratelli d’Italia? Ne rimane soltanto quell’immagine desolante e decrepita dell’odierna classe dirigente che non sa affrontare l’enorme crisi economica che ci ha investito e che pensa solo a se stessa? Ma, poi, come è possibile che tale classe dirigente ci governi?
Su questi sostanziali quesiti si snoda il colloquio fra i due storici, che tratteggiano, lungo i secoli della storia d’Italia, le mancanza e le occasioni perdute, ma anche gli slanci e le forze propositive che lo Stivale ha avuto.
E i due non evitano neanche il contrasto duro, frutto del differente retroterra culturale, ma sempre con toni calmi e pacati, comprendendo le tesi dell’altro e non chiudendosi a riccio sulle proprie. Ci insegnano così a rispettare le tesi avversarie, a “non mangiare” chi non la pensa come noi. Un’alta lezione morale sottintesa, dalla quale far ripartire anche la società italiana che, come discusso, ma concordato dai due, ha sempre avuto il difetto di dividersi e lacerarsi profondamente, frutto ciò di una sua “iperpoliticizzazione”. A questo si aggiunge un Italia che da sempre pensa per sé stessa, non come stato ma come singoli, singoli non intesi come individualismo, ma familismo, la tendenza cioè a curare l’orto di casa propria, a rafforzare e curare gli interessi della famiglia prima ancora di quelli dell’individuo e/o dello Stato.
La conclusione dell’incontro vede i due storici chiedersi come l’Italia possa affrontare la tempesta sulla quale sta navigando, in un mondo sempre più globale, investito dal tornado “crisi economica, e dove a farla da padrone saranno sempre più i nuovi grandi blocchi economici Stati Uniti, India, Cina, Brasile, ma non l’Unione Europea, anch’essa in profonda crisi: ormai dal Vecchio Continente “non passerà più la grande storia, il centro non è più qui”. L’Italia, concludono, deve ritrovare la propria identità, ravvivarla, trarne un modello da cui prendere slancio e ispirazione per guardare avanti.
GIUDIZIO:
****